Il frutto dimenticato… Il biricoccolo

Antico frutto citato nel catalogo di alberi da frutto (1775) dei frati Certosini di Parigi. Ibrido naturale tra susino mirabolano e albicocco. In Italia è presente storicamente nel bolognese e nella zona vesuviana, regni dell’albicocco, fin dai primi dell’ottocento con il nome di “albicocco violetto”. Successivamente altri autori hanno citato la specie con il nome di albicocco nero, albicocco del Papa e susino-albicocco. L’origine della specie è incerta e la pianta non esiste allo stato selvatico. ( Uno studio approfondito della durata di 15 anni sul biricoccolo è stato effettuato negli anni 30 e 40 dal compianto Prof. Angelo Manaresi, titolare, a quei tempi della Cattedra dell’Istituto di coltivazioni arboree dell’Università di Bologna. Questo studio ha consentito di illustrare la pianta evidenziandone i pregi, i difetti e le possibilità di coltivazione.) Essendo un ibrido derivato da un incrocio occasionale e naturale fra l’albicocco e il susino mirabolano la sua presenza può essere rilevata in tutte le zone dove queste due specie sono diffuse. La specie è coltivata nella Cina Occidentale e nell’Asia centro- meridionale.
Questo frutto era già stato studiato da Le Berriays e lo aveva chiamato “albicocco del Papa”, fu studiato da Fillassier che lo chiamarono “albicocco susino”. Nel 1791 l’Ehrhart lo considera come una entità specificata a sé stante, chiamata prunus dasycarpa, attribuendogli il sinonimo di albicocco nero (Maranesi, 1950) . Tra i primi genetisti ad interessarsi di questo ibrido ricordiamo Burbank che selezionò nel 1911 un ibrido chiamato “Apex plumcot”.
Buccia liscia, sottile, appena pelosa, di colore arancio-violetto. Polpa, dolce, dal sapore che ricorda l’albicocca con la fragranza di una susina, è di colore rosso-aranciato.

Le biricoccole erano utilizzate dalle nostre nonne per preparare una marmellata lievemente asprigna, considerata tuttavia tra le migliori per confetture, tortelli dolci di pasta frolla e ottime crostate.

La ricetta? Dopo avere tolto i semi, si pesava la polpa con la pelle. Quindi si aggiungeva una quantità di zucchero quasi uguale al peso della polpa. Il tutto veniva fatto macerare per una notte intera in una “caldera”, ovvero un paiolo. L’indomani, si faceva cuocere a fuoco moderato finchè la marmellata aveva raggiunto la densità desiderata.

 

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