Il Veneto.. i suoi sapori

Diversa per le distinte componenti geomorfologiche del suo territorio – la costa e la laguna, la pianura, la collina e le Alpi – la tradizione gastronomica del Veneto ha un suo popolare e comune denominatore: la polenta di farina di mais, un tempo cibo di sopravvivenza per le popolazioni contadine e ora glorioso piatto sulle tavole dei ristoranti
Quando, verso la metà del Cinquecento, arrivò in Europa da oltre oceano il grano, che la gente chiamò subito “turco”, cioè straniero, i veneziani si accorsero che, per fare la polenta, era migliore sia del miglio e del grano saraceno, sia dei ceci. La polenta, un alimento base di tutto il Veneto, spesso sostituisce sulla tavola il pane e la pasta; soltanto il riso che, prima di essere coltivato su suolo veneto (soprattutto nel Veronese) era importato dall’Oriente, le contende il primato. L’elenco dei piatti a base di riso è lunghissimo perché si tratta di un cereale che si accompagna a una grande varietà di ortaggi, oltre che ai funghi, ai molluschi, ai salumi, alle carni. Il “desfrito” lo vede in brodo con verdure soffritte; classici sono il “risi e bisi”, il riso con i piselli; il “risi e finoci”, il “risi e spinaci”, il “risi e verze”. I “risi” veneti sono “all’onda”, hanno cioè una consistenza morbida, semiliquida, perché è una costante della cucina veneta essere cremosa nella consistenza, delicata nei sapori. Singolare è la minestra che accosta il riso e la pasta: al primo, soffritto, bagnato con brodo d’anatra e informaggiato, si uniscono a metà cottura le tagliatelle fatte in casa e altro brodo.
La pasta, che nella versione asciutta non domina sulla tavola veneta, è però la protagonista, insieme ai fagioli, di molte zuppe e minestre che, pur chiamandosi tutte “pasta e fasoi”, esistono in numerosissime varianti. È questo un piatto povero che però richiede una lunga preparazione. I fagioli – ottimi in tutto il Veneto, ma speciali sono quelli di Lamon in provincia di Belluno – sono messi a cuocere in acqua fredda con aggiunta di cipolla, aromi vari e un condimento che può essere un osso di prosciutto o una cotenna fresca di maiale. Vanno poi cotti lentamente, “coadi” cioè covati, per due ore e mezzo. Se ne passa quindi al setaccio una metà e il passato si fa bollire ancora per un po’ prima di buttarvi la pasta, cotta la quale, si aggiunge olio crudo. Alcuni considerano blasfema l’aggiunta di formaggio grattugiato; altri la consigliano. La lunga cottura è una caratteristica della cucina veneta perché durante gli inverni nebbiosi dell’entroterra il focolare restava quasi sempre acceso e invitava a preparazioni complesse. La “covatura” è la tecnica di cottura di uno dei piatti più prelibati, la “sopa coada”: non tanto una zuppa quanto uno sformato che alterna fette di pane intrise nel brodo al piccione disossato, in una variante più ricca si aggiungono tranci di cappone e di tacchino. Il tutto, posto in una teglia di coccio, va messo in forno e lasciato a “covare” per molte ore. La “zuppa scaligera” è una versione della “sopa coada”.
I “piatti di mezzo” comprendono due grandi categorie di preparazioni che hanno come ingredienti la carne e il pesce. Le carni di manzo e vitello sono un po’ in ombra; un ruolo importante hanno le interiora, particolarmente il fegato la cui cottura “alla veneziana” in un soffritto di abbondanti cipolle è un classico della cucina nazionale. Il maiale, non molto diffuso, compare in una ricetta squisita: il porcello di latte alla vicentina farcito di mollica di pane inzuppata nel latte. A dominare la tavola sono soprattutto gli animali da cortile: polli, anatre, piccioni, oche, tacchini, faraone. Treviso va famosa per la sua oca arrosto con il sedano in insalata; altre ricette sono il tacchino arrosto in salsa di melograni, e l’anatra, o la faraona, “co la peverada”, la più nota delle salse venete. Si prepara con brodo, spezie, pangrattato, burro, salumi, molto pepe; nella versione veronese si aggiunge il midollo di bue, in quella di Treviso il fegato d’oca o il pepe. Alcuni sostituiscono il pepe con il cren (rafano) grattugiato. Si dice che con la “peverada” un cuoco di corte sia riuscito a fare tornare l’appetito a Rosmunda dopo il crudele brindisi impostole da Alboino. Ricca è la cacciagione – ad Asiago si prepara il capriolo in agrodolce con salsa all’uvetta – ma è soprattutto quella acquatica delle zone vallive – germani reali, codoni, fischioni, murette, alzavole, folaghe, chiurli, aironi – a dominare in tavola, specie a Rovigo. Spesso il tartufo bianco locale vi aggiunge un tocco raffinato.
Varia è la produzione dei salumi: prosciutti, salami, “bondole” (insaccati a base di carne di suino e di manzo con lingua salmistrata, pepe, spezie e vino), ossocolli (corrispondenti alla coppa emiliana e lombarda), “museti” (cotechini), “luganeghe” (salsicce), “baldon” (sanguinacci), salami d’asino molto agliati. L’Adriatico e la laguna offrono una grande varietà di pesce, crostacei e molluschi. Molte specie – le anguille (cosiddette “bisà”), i muggini, le orate, i branzini, le sogliole, i ghiozzi, i granchi, le cape sante – vengono coltivate nell’estuario in recinti chiusi. Particolarmente gustose sono le “moleche” (granchi nel periodo della muta), le grancevole, le seppie in “brodeto” (la zuppa di pesce adriatica); a Rovigo domina lo storione lesso, in umido, fritto, arrosto. Dalle sue uova si ottiene un caviale più tenero di quello russo. Un protagonista della tavola è il baccalà, cioè il merluzzo essiccato non sotto sale, nella versione vicentina o in quella mantecata di Venezia. La preparazione è lunga: dopo essere stato scottato in acqua bollente, spellato e diliscato, il merluzzo viene sminuzzato in piccole scaglie che, sbattute con un mestolo di legno mentre si aggiunge via via olio di oliva, “montano” come uno zabaione, trasformandosi in una soffice spuma che andrà messa sul fuoco e cotta fino a diventare fluida e omogenea. Il miglior accompagnamento è la polenta a fette abbrustolite o, nella variante vicentina, calda e morbida appena scodellata. Per sfruttare il pesce meno pregiato, e forse non sempre freschissimo, si sono elaborate ricette “povere” come il “saor”, una salsa a base di cipolle fritte, aceto, spezie, pinoli, uvetta, per insaporire le sarde e le sogliole. Si chiamano “mogiu alla greca” le sarde cucinate secondo un modo frequente nell’Egeo: messe in tegame a strati con un soffritto dove si fanno sentire il limone e a volte anche l’aglio, vengono poi cotte in forno.
Tra i formaggi il più celebre è l’asiago – dal nome dell’altopiano dove si produce – a pasta dura e semidura, da grattugia e da tavola.
Eccellenti sono le verdure che vengono dagli orti del litorale fra Mestre e Chioggia. Indiscusso sovrano è il radicchio di Treviso e Verona, rosso porpora, con foglie lanceolate dal sapore amarognolo. Si serve come insalata oppure lo si frigge o arrostisce per accompagnare le carni.
Fra i dolci ricordiamo i “baicoli”, biscottini secchi e sottili di Venezia, e il pandoro di Verona, alto e soffice; troviamo inoltre focacce, ciambelle, frittelle, dai nomi come “busola”, “maneghi”, “schisoti”, “fartaia”, per indicare le varianti in cui compaiono nelle vetrine dei pasticceri nelle diverse località. Come diceva Goldoni, “tuti gode un’intera libertà/ dorme chi vol dormir,/ magna chi ha fame/ balla chi vol ballar,/ canta chi sa!”
 

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