La Frisella campana

La frisella è un tarallo di grano duro (ma anche orzo o in combinazione secondo varie proporzioni) cotto al forno, tagliato a metà in senso orizzontale e fatto biscottare nuovamente in forno. Ne consegue che essa presenta una faccia porosa e una compatta.

L’impasto, ottenuto dalla lievitazione di farina di grano o orzo, acqua, sale, lievito, viene lavorato a mano per renderne omogenea la struttura e tagliato nella pezzatura desiderata secondo la tradizione locale e lavorato fino alla forma di una losanga. Con gesto sicuro si premono le quattro punte delle dite perfettamente allineate lungo tutto l’asse della losanga creando uno spessore più sottile lungo l’asse principale che agevolerà lo spacco successivo. La losanga ottenuta viene arrotolata su stessa in una breve forma spiralata con un piccolo foro al centro e poi affiancata a contatto con altri pezzi in piccole palettate di sei-otto forme.

Dopo la prima cottura la paletta viene scomposta nelle singole forme e, ancora calda, viene tagliata con un filo (a strozzo) sul piano mediano orizzontale lasciando sulla faccia dello scorrimento dello spago la caratteristica superficie irregolare.

I due pezzi ottenuti, quello inferiore col fondo piatto e quello superiore con la faccia curva, si ricuociono nuovamente in forno (bis-cotto) per eliminare l’umidità residua della pasta. La frisa viene conservata in contenitori di creta (oggi in buste di plastica) per preservale dall’umidità e favorire la conservazione come un normale pane biscottato. Le friselle ottenute con pezzature più grandi, per effetto delle lavorazioni imposte alla forma prima della cottura, all’atto della bagnatura (sponsatura) si dividono quasi naturalmente in due parti: quella superiore più morbida in corrispondenza della faccia dello spacco e quella del fondo più dura ed è usanza servirle già nel piatto divise per facilitarne il condimento. Le friselle ottenute con pezzature minori si bagnano e si condiscono intere. La pezzatura della singola frisella, in passato, corrispondeva alla porzione di pane necessaria al regime alimentare di un lavoratore addetto a lavori pesanti e spesso costituiva l’intero apporto calorico del pasto assunto. Prodotta principalmente in Puglia, è anche molto diffusa in Campania, dove prende il nome di fresella. Nella lingua italiana, grazie alla riscoperta delle tradizioni pugliesi e salentine, si sta imponendo il termine frisa.

Viene preparata con il grano del Salento, sia quello vagliato fine sia con quello con ancora parti di crusca fine (rossello).

Per gustarla si bagna in acqua fredda per un tempo che dipende dal gusto individuale e dalla consistenza della pasta cotta. Quindi si condisce, con pomodoro fresco, origano, sale e un filo d’olio extravergine d’oliva del Salento. Come variante si può strofinare uno spicchio di aglio sulla frisella prima di bagnarla, si può aggiungere del peperoncino, del cetriolo o del carosello (menunceddha, spureddhra).

Prima del dopoguerra, la frisella di farina di grano era riservata alle sole tavole benestanti e in altre poche occasioni celebrative. I ceti meno abbienti della popolazione consumavano friselle derivate dall’impasto di farina di orzo o miscele di orzo e grano.

La frisella può essere conservata per un periodo lungo e questo la rendeva una valida alternativa al pane, nei periodi in cui la farina era più scarsa. In Puglia è nota anche come il pane dei Crociati giacché favorì l’accasermamento e il viaggio delle truppe cristiane.

In passato in Puglia si usava bagnare le friselle direttamente in acqua di mare, e consumarle condite col solo pomodoro fresco, premuto per far uscire il succo.

La forma non è il risultato di una ricerca estetica o del caso, risponde a precise esigenze di trasporto e conservazione. Le friselle venivano infilate in una cordicella i cui terminali venivano annodati a formare una collana, che era facile appendere per un facile e comodo trasporto e conservazione all’asciutto. La frisella era infatti un pane da viaggio, da qui l’uso di bagnarla in acqua marina da parte dei pescatori, questi la usavano anche come pane per le zuppe di pesce o di cozze, alimento abituale durante le battute di pesca che duravano parecchi giorni.

Nelle tradizione salentina, comune ad altre tradizioni contadine, si procedeva con cadenza regolare alla panificazione, spesso in capientissimi forni a legna comuni o pubblici. Gli intervalli di panificazione potevano essere variabili da cadenze bisettimanali fino a periodi di oltre tre mesi, per cui il quantitativo di farina di una o più famiglie associate, poteva costituirsi da un impasto di 100-200 kg. Nella panificazione una quota limitata (20%) si costituiva da pezzi pane morbido da consumarsi nei primissimi giorni in genere da tagliarsi a fette. Moltissime risultano le varianti del pane fresco spesso associate alla presenza nell’impasto di olive nere, zucca, cipolla, ecc.. o a particolari lavorazioni (taralli, pirille, ecc..) per il consumo diretto senza particolari condimenti aggiunti. La quota maggiore dell’impasto di panificazione veniva riservato, appunto, alla produzione di friselle di più lunga conservazione rispetto al pane fresco tenero assicurando intervalli di panificazione maggiori. In casa le friselle erano poi conservate in grossi orci di creta (quartieri o capasoni). La frisella, pertanto, non costituiva una particolare elaborazione di un prodotto da forno ma un prodotto alimentare di base, spesso in contesti dove la panificazione di pane sempre fresco era impossibile o inopportuna. Nel Salento la tradizione della panificazione “secca” è tuttora conservata in pochissimi centri minori e famiglie, spesso associata alla coltivazione in proprio di grano. Attualmente la frisella è prodotta da forni commerciali in varie pezzature e venduta in confezioni imbustate nei supermercati di tutta Italia.


A Napoli la fresella è la base della caponata, fatta con pomodoro a pezzetti, aglio, olio, origano e basilico su di una fresella bagnata.

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