ASPA: “Mangiare carne non significa non amare gli animali”

“Le linee guida per l’alimentazione complementare dei bambini pubblicate dall’Oms raccomandano, a partire dai sei mesi di età, l’assunzione giornaliera di alimenti di origine animale”. A ricordarlo, è il presidente dell’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) e preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Sassari, Giuseppe Pulina. Insomma, l’uomo, onnivoro per natura, durante la crescita “non può e non deve privarsi della carne, perché contiene sostanze fondamentali per lo sviluppo, come ferro, zinco e vitamina B12”. Tant’è che – secondo alcuni studi – figli allattati al seno da madri vegane e vegetariane manifestano sintomi di anemia megaloblastica, ipotonia, alterazioni al fegato e milza, anoressia, ritardi nella crescita somatica e cognitiva.
Ma “amare la carne”, non vuol dire “non amare gli animali”, anzi, significa rispettarli ancora di più, perché si riconosce il grande valore che assumono per noi, per la nostra esistenza. “Per questo più che di macellazione è corretto parlare di sacrificio”, sottolinea Pulina.
Eppure, adepti al regime vegetariano ripugnano di fare del male a un essere vivente. Su questo punto, interviene il coordinatore della Commissione Etica e Deontologia delle Produzioni Animali dell’ASPA, Giuseppe Bertoni: “È difficile parlare di amore per gli animali quando poi li si utilizza per le proprie esigenze. Con ciò mi riferisco – chiarisce Bertoni, che è anche professore all’Istituto di Zootecnica della Facoltà di Agraria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Pc) – non solo a necessità alimentari, ma anche di difesa, compagnia, ecc.: tutte quelle esigenze che impediscono agli animali – di fatto – una esistenza “normale”, o “naturale” che dir si voglia”.
Per quanto riguarda la macellazione, Bertoni fa poi riflettere sul fatto che, in un certo senso, esiste già in natura, sotto forma di predazione: “Non può esistere un sistema naturale che non preveda tutti gli anelli della catena della vita. Tra questi “anelli”, sono compresi anche i carnivori (fra cui l’uomo), che svolgono un ruolo cruciale per mantenere l’equilibrio fra le popolazioni di animali erbivori e le risorse alimentari costituite dai vegetali”.
“Ciò che l’uomo fa con l’allevamento – approfondisce sempre Bertoni – è di ridurre (o annullare) la competizione fra carnivori (che sarebbe a scapito dell’uomo), ma anche la competizione data da parassiti e patogeni, al fine ultimo di accrescere la disponibilità di carne e/o latte”. Si pensi per esempio che, in un insediamento semi-naturale di cervi nelle Alpi venete, giunge ad un anno di vita circa il 30% dei neonati; mentre in un allevamento intensivo di bovini raggiunge la stessa età almeno il 90% dei vitelli.
Se si confronta quanto avviene in natura con quanto avviene negli allevamenti “salvo rare eccezioni (specie maschi), il numero dei riproduttori rimane pressoché invariato, mentre l’azione dei predatori è sostituita dalla macellazione, sicuramente meno dolorosa e stressante di quanto avviene tra animali in libertà”.
Bertoni chiarisce poi che “non è vero che in natura gli animali abbiano solo “gioie” e che negli allevamenti abbiano solo dolori”. Questo, “è un luogo comune da sfatare”. Pensiamo, per esempio a un allevamento di bovini: “è nell’interesse economico dell’allevatore che i capi stiano bene: se stanno male, l’allevamento non dà né carne, né latte e quindi non c’è guadagno”.
Il professore mette poi a confronto allevamenti estensivi (quando gli animali sono liberi di muoversi e pascolare su una superficie di media o grande estensione, all’aria aperta e senza ricoveri contro le intemperie) con quelli intensivi, in cui i bovini, negli spazi delle stalle, sono in totale dipendenza dall’uomo per l’alimentazione e il riparo.
In realtà, spiega Bertoni, “gioie e dolori” si riscontrano sia nei sistemi naturali (o negli allevamenti estensivi), sia negli allevamenti intensivi. “Negli allevamenti estensivi mancano spesso alimenti, acqua e sicurezza; in quelli intensivi a difettare è soprattutto la libertà di comportamento”.
Vero è che gli allevamenti intensivi inquinano, “ma solo quando il numero dei capi è sproporzionato rispetto alla superficie utilizzabile per le deiezioni, e non si mettono in atto le contromisure necessarie allo smaltimento”. Inoltre, rispetto agli allevamenti estensivi, quelli intensivi inquinano meno perché, “a parità di prodotto, richiedono meno animali e quindi le quantità complessive di inquinanti (gas serra, nitrati, fosforo, metalli pesanti) sono nettamente inferiori”.

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