La sostenibilità alimentare

Tra le varie attività che contribuiscono ai cambiamenti del pianeta, grande responsabilità è da attribuire anche a come l’uomo produce e consuma il cibo.

Per questo è possibile parlare, oggi, anche di sostenibilità alimentare, ossia di quelle scelte che cercano di individuare le strade migliori per limitare gli impatti sull’ambiente e per tutelare i diritti degli esseri umani che da queste risorse naturali dipendono strettamente. Non va, infatti, dimenticato che un cibo non può essere considerato “sostenibile” se durante qualche passaggio dalla produzione al consumo vengono violati i diritti dell’uomo, con lo sfruttamento dei bambini, con il lavoro nero, o con la lesione della salute dei lavoratori e dei consumatori. Per mantenere gli elevati livelli di produzione e consumo di cibo che oggi caratterizzano i paesi industrializzati, come l’Europa e gli Stati Uniti, e che a breve caratterizzeranno anche paesi emergenti come l’India e la Cina, occorrono molta acqua e suolo per allevare gli animali e per coltivare i cereali con cui nutrire gli animali stessi.

Servono anche tante sostanze chimiche di sintesi per accelerare i ritmi di produzione sia animale che vegetale, ma altrettante sostanze chimiche di scarto vengono introdotte nei mari, nei fiumi e nel terreno, alterando l’equilibrio degli ecosistemi e uccidendo molti organismi viventi. In particolare, il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall’agricoltura, i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire gli animali d’allevamento.

Quasi la metà dell’impatto ambientale complessivo legato ai processi di lavorazione, produzione e trasporto di cibo è dovuta al consumo di energia, soprattutto di combustibili fossili (come il petrolio), che emette sostanze inquinanti nell’ambiente, in particolare in atmosfera.

Ogni anno scompaiono 17 milioni di ettari di foreste tropicali per fare spazio a coltivazioni e a pascoli.Inoltre, la crescita demografica rende sempre più necessari nuovi suoli su cui coltivare per nutrire l’uomo, ma l’uso dei terreni per coltivazioni destinate all’alimentazione animale riduce ulteriormente la possibilità che tutti gli uomini sul pianeta abbiano cibo per sopravvivere e per vivere. A questo occorre aggiungere lo sfruttamento eccessivo di risorse naturali, come quei pesci (il tonno, il merluzzo, l’acciuga) che, in quanto specie commerciabili, sono stati pescati in grandi quantità per molti anni, come se fossero una risorsa infinita, e che oggi sono a rischio di estinzione. Infine, vi sono aspetti che influiscono negativamente sulle persone che lavorano per produrre, trasformare e confezionare cibo, sulla loro salute e sul loro diritto alla vita.

Generalmente sono i prodotti alimentari che noi paesi occidentali importiamo da lontano a portare con sé storie di sfruttamento e di povertà, come, ad esempio, accade per i gamberetti allevati lungo le coste tropicali del Sud America o dell’Asia, o per le banane coltivate nelle piantagioni del Sud e Centro America. Talvolta anche i cibi nostrani nascondono, però, fatti di immigrazione clandestina e di lavoro in nero, come scoperto per la raccolta dei pomodori nelle coltivazioni del Sud Italia.

Quindi, scegliere consapevolmente un prodotto al supermercato significa anche ricordarsi che quel prodotto è il frutto del sudore di molte persone che lavorano troppo spesso in condizioni disumane.

 

fonte eat-ing

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