Il vino nell’antica Roma

Nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem (Non piantare, o Varo, alcun albero prima della vite sacra). E’ questa la raccomandazione che Orazio, ripetendo quanto già era stato espresso dal poeta greco Alceo, rivolge all’amico Varo, ricordando così quanto fosse importante la coltivazione di questa pianta. In Plinio poi, si legge che l’Italia, per quanto concerneva la coltivazione della vite, aveva una tale supremazia da dare l’impressione di avere superato, con questa unica risorsa, le ricchezze di ogni altro paese.

Il vino, dopo l’acqua, era la bevanda più utilizzata nel mondo romano antico. Nel vino, come ricorda Properzio, era il rimedio agli affanni. Il vino, si legge ancora in Orazio, contribuiva ad allontanare le preoccupazioni che rendevano la fronte corrugata e anche Seneca ricorda come in particolari circostanze fossero benefici gli effetti del vino: “Ogni tanto – dice – è bene arrivare fino all’ebbrezza, non perché questa ci sommerga ma perché allenti la tensione che è in noi. L’ebbrezza scioglie le preoccupazioni, rimescola l’animo dal più profondo e, come guarisce da certe malattie, così guarisce anche dalla tristezza”. Ma aggiunge la raccomandazione, che era stata anche di Teognide, che bisognava essere moderati nell’uso del vino.

Il vino, ricorda ancora Orazio, dava anche libero sfogo ai sentimenti nascosti. Dice infatti: “Che cosa non dischiude l’ebbrezza?” e parimenti Plutarco afferma che quello che era racchiuso nel cuore dell’uomo sobrio era, invece, sulla lingua dell’uomo ubriaco che, proprio sotto l’effetto del vino, pronunciava parole delle quali poi si sarebbe pentito. E’ quanto espresso anche da Marziale con cognizione di causa in quanto avendo, sotto l’effetto del vino, promesso incautamente una cena ad un amico, si era reso conto della pericolosità dell’ubriachezza soltanto quando l’amico si era presentato alla cena e si lamenta dicendo: “Ti sei annotato le parole di un uomo non sobrio” e termina con un detto greco: “Odio il commensale che ricorda”.

La raccomandazione di non abusare dei doni del dio Bacco è anche in Orazio che ricorda, comunque, quanto fosse piacevole lasciarsi trasportare e godere dei piaceri del vino che, scendendo nelle vene diffondeva nel corpo una piacevole sensazione di ebbrezza, che contribuiva a creare speranze e ad allontanare preoccupazioni, tensioni e malinconie.

Il vino, come si legge frequentemente, era anche richiesto per essere complice di notti d’amore: “nox, mulier, vinum” è quanto desiderato, ma ad esso si ricorreva anche per alleviare i problemi d’amore che potevano essere sopiti solo per l’effetto di abbondante vino o di vino puro.

Il vino, infatti, si beveva solitamente unito all’acqua in una proporzione che di volta in volta veniva stabilita, nei banchetti, dal magister bibendi. Se poi il magister bibendi era Postumia, come ricorda Catullo, che prescriveva si dovesse servire del vecchio Falerno puro, allora si comprendeva bene il tono della serata. Nei Thermopolia, che si aprivano nelle strade delle città, il vino veniva servito caldo, accompagnato da cibi che, già pronti, potevano essere mangiati con facilità. Una ostentazione di ricchezza era invece, bere il vino raffreddato facendolo passare attraverso la neve, mentre particolarmente ambito e ricercato, era il vinum consulare (vino consolare) come viene chiamato da Marziale o un vino memore di un console antico come viene ricordato da Tibullo.

Vini che erano stati sistemati nelle “cantine” sotto il consolato di un antico console, oppure quando ancora i consoli non c’erano o, addirittura, vini che erano stati sistemati quando regnava il re Numa, sono ricordati ancora da Marziale e questi vini venivano presi fuori dalle cantine solo in particolari circostanze.

I romani, frequentemente, bevevano il mulsum, cioè il vino unito al miele e Apicio ricorda un vino mielato condito con pepe e numerosi altri ingredienti. Ancora Apicio ricorda un vino mielato condito con il solo pepe e, aggiunge che questo vino si conservava e veniva dato ai viandanti. Sappiamo inoltre che l’imperatore Alessandro Severo beveva, ogni giorno, due sestari di vino mielato con il pepe e quattro senza aggiunta di pepe.

Si legge in Macrobio che, per avere un vino mielato gradevole al palato, occorreva mescolare miele fresco dell’Imetto e vino vecchio Falerno. Anche Plinio consiglia di impiegare il vino vecchio, che per sua caratteristica aveva un sapore leggermente amaro, perché quello dolce non si univa altrettanto bene al miele. Marziale però non è dello stesso avviso perché preferiva gustare il prelibato Falerno senza l’aggiunta del miele. Columella suggerisce, per ottenere dell’ottimo mulsum, di impiegare il mosto derivato dal naturale gocciolamento dell’uva prima che venisse pigiata.

Un condimento abbastanza frequente del vino era la resina (resinata vina) che infondeva nel vino il suo caratteristico sapore. Marziale, però, considera questo vino scadente.

Il vino poteva essere aromatizzato anche con la pece e con la mirra che era considerata, quest’ultima, un ottimo condimento. Infatti Marziale suggerisce, a coloro che bevevano il Falerno caldo, di unirvi la mirra perché ne avrebbe esaltato il sapore.

Columella, Plinio e Palladio insegnano anche come preparare il vino al sapore di mirto, ma non si trattava di un vero e proprio vino “condito” da presentare nei banchetti, infatti Catone lo ricorda, insieme ad altri vini, che venivano preparati a scopo medicamentoso.

Apicio, per condire il vino, ricorda un metodo semplice per gli ingredienti utilizzati. Si trattava di mettervi in infusione dei petali di rosa, bene asciutti, ai quali era stata tolta l’”unghia” bianca e questo procedimento doveva essere ripetuto per tre volte ogni sette giorni. Quando si trattava di utilizzare questo vino: rosatum, bisognava aggiungervi del miele. Se poi al posto dei petali di rose si utilizzavano dei petali di viole, si otteneva il violacium. Sempre in Apicio si legge che il rosatum si poteva ottenere anche prendendo delle foglie verdi di limone che, dopo averle sistemate in un cestino fatto con foglie di palma, dovevano essere messe nel mosto e lasciate in infusione per 40 giorni. Al momento dell’utilizzo vi si doveva aggiungere del miele.

L’imperatore Eliogabalo offriva al popolo vino rosatum o vino mielato, oltre a vino aromatizzato, appositamente sistemato in piscine e in tinozze da bagno. Anche l’imperatore Gordiano II amava bere il vino rosatum come pure il vino aromatizzato dal lentischio, dall’assenzio e da altri aromi delicati. Comunque l’uso di aromatizzare i vini con la resina di lentischio, con la menta o con altre essenze era stato introdotto, per la prima volta da Eliogabalo e sempre quell’imperatore aveva fatto correggere il sapore del rosatum facendovi aggiungere anche un trito di pigne. Lampridio sottolinea che non si aveva notizia che questa raffinatezza fosse stata utilizzata prima di lui.

Fonte www.beniculturali.it

 

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