degli erbaggi che nella primavera si mangiano (G.Castelvetro 1546-1616)

Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangianodi Giacomo Castelvetro (1546-1616)

Giacomo Castelvetro diventa  famoso per aver pubblicato un popolare libro sulla cucina italiana, il più importante del secolo nel suo genere.  In quest’opera il Castelvetro coglie uno degli aspetti più originali e distintivi della gastronomia italiana: l’uso di verdure e insalate. A differenza degli inglesi che, egli osserva, mangiano molta carne, sono ragioni di povertà e di clima, trasformate ben presto in consuetudini culturali, a far eccellere gli italiani nell’arte delle insalate

Più volte meco medesimo pensando e sottilmente quante cose al vivere umano giovevoli questa nobile nazione da un cinquanta anni in qua s’abbia apparato a seminare e a mangiare dal concorso di molti popoli rifuggiti in questo sicuro asilo per ischermirsi e per salvarsi da’ rabbiosi morsi della crudele et empia Inquisizione romanesca, le quali erano prima da quella come cattive a mangiare sprezzate e come nocive alla salute de’ corpi loro aborrite, mi son grandemente maravigliato di vedere che oggidì molti ancora, o per trascuraggine o per ignoranza, assai altre di seminare si rimangano, le quali pure non son men buone a mangiare né meno salutifere a’ corpi nostri che quelle si sieno; il veder poi alcuni pure alcune di queste seminare, ma non già per voglia di cibarsene, ma sì più tosto spinti da vaghezza di riempire i colti loro di varie qualità d’erbe ciò farsi.

Queste considerazioni adunque han mosso me a cercar di porre per iscritto (al meglio mi saprò ricordare) non solo il nome di tutte quelle radici, di tutte quelle erbe e di tutti que’ frutti, che nella civile Italia si mangino, ma ancora di mostrare come, per trovare le predette cose buone, si vogliono cuocere, e in compagnia di che, crude, s’usino a mangiare, acciò che, per falta di questo, non s’astengan più da seminarle né da mangiarle. Sì che, per dar principio a questa mia per aventura non afatto disutile fatica, comincierò, col nome di Dio e con un ardente desio di giovare al prossimo mio, da quelle erbe che nella verdeggiante e vaga primavera prima fuori della terra appaiono.

De’ lupuli.

Pertanto dico la prima erba, che in così fatta stagione si vegga, il lupulo è, che non mangiam noi mai cruda; ma, dopo averne in più acque lavata quella quantità ne piace, a cuocere in acqua con un poco di sale mettiamo; e, cotta, di là la traemo, e ben bene sgocciolata in un piatto netto posta, con sale, con assai olio, con poco aceto, od in suo luogo succo di limone, e un poco di pepe franto e non polverizzato l’acconciamo, e inanzi pasto per insalata l’usiamo. Altri poi, bolliti che hanno i lupuli, gl’infarinano e in olio gli friggono, e sopra vi sparono un poco di sale, di pepe e succo di melaranzi, e così con gusto se gli mangiano. E perché questo simplice è sovrano a rinfrescare e a purificare il sangue, gli uomini che non vogliono per ogni leggier cagione molestare il medico, né saziar gli ‘ngordi speziali, e pur è loro a cuore la salute de’ corpi loro, pigliano un piccicotto di questo simplice e altretanto fumoterra, cicorea, indivia e boraggine, e tutte insieme, ben lavate, in acqua senza sale fan cuocere. E qui si vuol notare che l’acqua non sarà men di due quarte, e si faran tanto in quella bollire che scemi la metà, e poi l’erbe si trarranno, che pure per insalata la sera si mangiano; e la mattina, anzi levarsi del letto, si beono un buon bicchiere di quella decozione tepida, e ciò continuano di fare lo spazio di sette o di nove mattine, e dopo prendono una presa di cascia o di manna o d’altro leggiero purgativo, e a questa guisa freschi e sani tutta la vegnente estate con poco costo si conservano. Questa medicina usano spezialmente quelli che dalla rincrescevol e ischivevole rogna son molestati, e in un subito restan mondi e sani.

Degli sparagi.

Appresso, anzi per poco nel medesimo tempo, vengono gli sparagi, frutto, o vogliamlo chiamare simplice, vie migliore del lupulo. Questi vengono d’alcuni mangiati crudi col sale e col pepe, ma, cotti e acconci come de’ lupuli vengo di dire, a me piacciono molto più. Altri di loro pigliano i più grossi, e prima d’olio gli ungono bene, e poi, avendovi sparto alquanto sale e pepe, sopra un tagliero gli rivolgono per quel sale impeperato, e così acconci sopra la graticola ad arrostir gli mettono, et è un delicato mangiare, massime spargendovi sopra sugo di naranzi. È lo sparago sanissimo, non facendo male a parte veruna del corpo umano, e sopra il tutto è ottimo per coloro che con pena orinano, perch’è aperitivo molto.

De’ broccoli. Dietro a questi i broccoli delle verze o de’ cavoli lumbardi vengono, che sono le tenere foglie che i torsi de’ cavoli restati negli orti tutto lo ‘nverno gittano in questa stagione fuori, e van cotti e apprestati come ho di già detto ne’ predetti due simplici, se bene alcuni metton a bollire con questi uno o due capi d’aglio, che gli dà un gusto mirabile.

De’ carciofi.

Seguitano i carciofi, dico in Italia, ove non durano tutto l’anno, come sovente fanno in questo fertilissimo reame. Si mangiano i carciofi crudi e cotti, ma con alcun ragionevole riguardo, perché, come son grossi quanto è una commune noce, son buoni da mangiar crudi, né altro con essi si mangia che sale, pepe e cacio vecchio. Se ben molti senza il cacio li mangino, gli uni ciò fanno per aborire tal cibo, gli altri per generar lor catarro e alcuni per ignoranza, non sapendo qual sapore accresca loro; né più grossi d’un pomo commune crudi son buoni. A più foggie poi noi gli cuociamo, oltre alla non biasimevole maniera inglese, perché i piccioli, che non vogliam mangiare crudi, tagliate alquanto le cime delle loro pungenti foglie, diam loro prima un bollo in acqua pura, la qual gittiam via per essere amarissima, e poi gli facciam finire di cuocere in buon brodo di carne grassa di manzo o di capponi; e cotti che sono, li nettiamo in un piatto alquanto cupo con un poco di quel brodo, e sopra vi spargiamo formaggio vecchio grattugiato e pepe, che accresce lor bontà, e così vengono da noi trovati un ghiotto mangiare, che a scriverlo mi fa venir l’acqua in bocca. Di simiglianti ancora ne facciam pasticci accompagnati da monne ostriche e dalla midolla de’ manzi, non gli privando del suo sale né del suo pepe, e per farne tai pasticci convien dar lor prima il bollo testé detto. I più grossi cuociamo su la graticola, tagliando lor la metà delle foglie, e sopra vi gittiam olio, pepe e sale; e chi dopo gl’inaffierà di sugo di naranzi mi rendo certo che non farà lor danno veruno; e piacciono oltre a modo, a questa maniera cotti, a chiunque ne mangia. I soverchi grossi, quali in questa isola nascono, cuociamo un poco prima in acqua e poi tra le loro gran foglie, che dalla metà in su tagliamo, mettiamo delle ostriche con dell’acqua lor natia e bocconcini di midolla di manzo con pepe, sale e olio o butiro fresco, e poi ne facciam pasticci che riescono fuor d’ogni credere ottimi.

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