Conosciuto dai tempi più antichi, i Greci lo chiamavano Idra, i latini lo denominavano Tuber, dal verbo tumere (gonfiare), gli arabi Ramech Alchamech Tufus oppure Tomer e Kemas , gli spagnoli Turma de tierra o Cadilla de tierra , i francesi Truffe (derivante dal significato di frode collegato alla rappresentazione teatrale di Molière “Tartufe” del 1664, gli inglesi Truffle, infine i tedeschi Hirstbrunst oppure Truffel .
Molte le definizioni del tartufo, tutte legate alla sua “stranezza”. Plinio il Vecchio sottolineava che il tartufo “sta fra quelle cose che nascono ma non si possono seminare”. Secondo Plutarco “il Tubero nasceva dall’azione combinata dell’acqua, del calore e dei fulmini”. Tale teoria oggetto di dispute, senza alcun risultato, da Plinio, Marziale, Giovenale e Galeno. Studi scientifici e credenze popolari, mescolate a dovizia, fanno sì che nel tempo si pensasse ora che il tartufo fosse una pianta, ora un animale, ora una escrescenza degenerativa del terreno, fino a definirlo cibo del diavolo o delle streghe, contenente veleni che conducevano alla morte.
Il primo trattato unicamente dedicato al tartufo risale al 1564 ad opera del medico umbro Alfonso Ciccarelli.
Secondo i romani i tartufi migliori si trovavano in Grecia e Libia; in Oriente era diffuso in Cina e in Giappone. In Europa erano famosi quelli della Provenza, del Perigord della Borgogna. In Germania si hanno le prime notizie del tartufo intorno ‘700 nelle zone di Brandeburgo e della Sassonia.

San Giovanni d’Asso, nelle Crete Senesi, ospita una mostra mercato che richiama visitatori da tutto il mondo.”Nascondersi” e “apparire” nella letteratura, a cominciare da Plinio il Vecchio, Giovenale, Marziale, negli erbari di C. Durante, negli studi di Mattioli e così giungendo fino a Molière che lo consacra simbolo dell’ipocrisia..
Questo il primo “contatto” del visitatore con il falso tubero, quel dono della natura che non ha appigli con la terra, non ha direzione di crescita, definito creatura del fulmine, cibo delle streghe o alimento afrodisiaco che sia. Tra copie anastatiche di preziosi volumi, filmanti e voci che ribalzano da uno schermo all’altro, proprio in virtù dell’apparire e del nascondersi..si prende confidenza con il tuber.
Si passa, poi, a quello che rende il Museo di San Giovanni d’Asso unico nel suo genere: il percorso sensoriale alla scoperta del “Magnatum pico”, questo il nome volgare tartufo bianco.
Già.. come esporre un tartufo? Come far si che l’esperienza del visitatore possa “solleticare” e “sollecitare”? Usando i cinque sensi.. Ed ecco il percorso sensoriale che inizia con il tatto. Piccoli orci celano contenuti misteriosi: infilandoci la mano (e senza estrarre il contenuto) si deve riconoscere cosa nascondono: un pezzo di terra, una ghianda oppure..il tartufo. Si illumineranno diversi tasti e se la risposta è quella corretta.. il verde confermerà la nostra capacità riconoscitiva al tatto.
Poi, la vista: la ricostruzione della “duplice” (ed ipocrita) caratteristica del tartufo: si entra in un “guscio” (una riproduzione a misura d’uomo del tuber) dalla superficie rugosa che cela all’interno pannelli che testimoniano la delicatezza e la morbidezza interne del tartufo: simboli, appunto, dell’ipocrisia, una scorza dura che cela un “cuore” tenero..
Non poteva certo mancare l’udito.. Il visitatore è invitato ad ascoltare i “rumori” tipici della ricerca del tartufo: i passi del cane o il vanghetto che entra nella terra.
È il momento dell’olfatto: anche qui l’ingegnosità dei curatori del museo mette alla prova la nostra abilità: premendo un tasto azzurro da un foro fuoriesce un effluvio.. funghi? Miele? Tartufo? Premendo il tasto corrispondente si ha la conferma della finezza del proprio odorato. Il gioco si conclude con il gusto: piccoli, ma intensissimi assaggi attraverso i quali il visitatore viene invitato a riconoscere quale parte della lingua (e, quindi, quali papille gustative) vengono coinvolte nel riconoscere il sapore. E accostandosi al gusto non si può dimenticare l’uso del tartufo in cucina: grazie alle tecnologie informatiche ci accompagna in un percorso culinario degno del tuber.
Cibo delle streghe o frutto del fulmine certo è che il mistero del tartufo, alimentato da stregoneria, scienza ed erotismo trova nel Museo di San Giovanni d’Asso non solo un’occasione di conoscenza “ravvicinata” ma anche un percorso di esaltazione dei sensi!

fonte agricolturaitalianaonline.gov.it

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